Taranto ha perso 60mila abitanti: serve una nuova cultura d’impresa

Taranto ha perso 60mila abitanti

Di chi è la colpa se Taranto ha perso 60mila abitanti in soli quarant’anni? Siamo a 188 mila. Cosa fare per invertire questo trend?

Il declino demografico di Taranto si fa sempre più allarmante. Ogni 12 mesi, perdiamo l’1,3% degli abitanti. Ad oggi siamo a 188mila.

E’ come se i cittadini di una città più grande di Martina Franca si fossero volatilizzati.

Taranto è il risultato di una politica di sviluppo basata su una monocultura industriale siderurgica che ha pesantemente caratterizzato l’intero territorio.

L’avvento dell’Italsider

Denominata oggi Città dei Due Mari per via della sua peculiare conformazione geografica e il suo secolare rapporto con l’acqua, vanta una posizione strategica che ne ha decretato l’importanza fin dall’antichità.

Originariamente il nucleo urbano era circoscritto a quella che oggi viene chiamata “Isola”.

Nell’Ottocento è iniziata la sua espansione con la costruzione dell’Arsenale che ha determinato la nascita del borgo umbertino e il progressivo abbandono delle sue antiche attività economiche che consistevano in:

  • allevamento di ostriche e mitili,
  • lavorazione dei murici per l’estrazione della porpora,
  • lavorazione del bisso, il ciuffo di filamenti con il quale la Pinna Nobilis è ancorata al fondo marino.

Con l’avvento dell’Italsider e l’insediamento di attività metalmeccaniche, siderurgiche e della raffinazione del petrolio, la città ha assistito ad un impressionante sviluppo demografico che ha raggiunto i 180.000 abitanti nei primissimi anni 60 e 200.000 nel 1980, come mai accaduto altrove in Italia.

Taranto dichiarata città ad elevato rischio ambientale già nel 1991

Da piccola e tranquilla cittadina del sud, Taranto si è presto trasformata in una grande città industriale caratterizzata da impatti ambientali enormi e immediati, tanto che nel 1991, il Ministero dell’Ambiente ha dichiarato la città e i Comuni limitrofi “area ad elevato rischio ambientale”.

Neanche a farlo apposta, proprio da questo stesso anno è iniziato il declino della popolazione, fenomeno che si è acuito tra il 1994 e il 2004, facendo registrare una tendenza ben più netta di quella rilevata a livello nazionale, e poco più decisa anche di quella regionale.

Taranto ha fatto registrare in 10 anni un calo di oltre il 5%, passando dagli oltre 200 mila abitanti del 2011 ai 188 mila odierni.

L’intera provincia, in 10 anni, ha perso circa 30 mila abitanti, un dato ancora più allarmante se si considera che, nello stesso periodo tutta la Puglia ha perso “solo” poco più di 17 mila abitanti.

La città oggi è tristemente nota alla cronaca internazionale per gli effetti della presenza del più grande centro siderurgico d’Europa e del più alto tasso nazionale di diffusione delle malattie tumorali.

Questo dato ha certamente contribuito al drastico calo di residenti fatto registrare negli ultimi decenni.

Scrive il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara: “Salutato all’inizio come panacea dei problemi occupazionali e, nello stesso tempo, come avanguardia del nuovo sviluppo industriale del Meridione, il Siderurgico si è rivelato nel tempo un pozzo senza fondo che ha ingoiato un numero imprecisato di miliardi di euro”.

Il Siderurgico deve chiudere?

Se consideri che oggi l’acciaio può essere acquistato a livello internazionale a prezzi notevolmente inferiori a quelli necessari per la sua produzione a Taranto e, che in una economia globalizzata ciascun territorio dovrebbe cercare di valorizzare al meglio i propri asset e le proprie risorse, non resta che una soluzione: chiudere le acciaierie.

A chi prospetta l’impoverimento del territorio e la perdita di migliaia di posti di lavoro si può segnalare che esistono soluzioni alternative.

Coerentemente con le strategie a lungo termine dell’Unione europea, con i Piani nazionali per l’energia e il clima e con i Piani per la riqualificazione ambientale, le stesse risorse, finanziarie e umane, impegnate per mantenere in vita lo stabilimento, possono essere utilizzate per smantellare gli impianti, bonificare il territorio e restituirlo alle sue naturali vocazioni.

Secondo calcoli, sia pure approssimativi, occorrerebbero dieci anni circa per la prima fase, smontare gli impianti, altri dieci anni per bonificare il territorio e altri dieci anni per avviare una serie di attività alternative legate al settore del turismo, dei servizi, dell’ambiente, dell’agricoltura mantenendo gli stessi livelli occupazionali se non, addirittura, incrementandoli.

EPPURE, IN MEZZO A TUTTO QUESTO DISASTRO, C’È CHI VEDE IL BICCHIERE MEZZO PIENO!

Nonostante la premessa posta fin qui, sono da ravvisare grandi potenzialità in questa città.

Quando si raggiunge il fondo, si può solo risalire, dicevano i nostri Padri.

Chiunque visiti Taranto rimane incantato dalle sue meraviglie. Questo è innegabile, soprattutto in relazione ai tanti commenti entusiasti dei numerosi turisti che visitano per la prima volta la città in occasione degli scali delle navi da crociera.

Ed è da qui che dobbiamo ripartire, anziché piangerci addosso e trascinarci il passato come una vecchia coperta che comunque fino ad oggi ha garantito benessere e affari, pur in mezzo a malattie, tumori ed altre disgrazie.

Il Siderurgico deve chiudere. Questo Siderurgico deve chiudere. Ma senza un’alternativa economica in grado di incoraggiare la ripartenza economica, Taranto non può permettersi di mandare sul lastrico tante famiglie monoreddito la cui unica entrata è proprio l’acciaieria.

In quel Mostro ci lavorano circa 8.000 tarantini.

E’ un dato di cui tener conto, piaccia o non piaccia.

L’alternativa al Siderurgico

Occorre costruire l’alternativa, prima di parlare di chiusura. Anzi, occorre accelerare la chiusura costruendo l’alternativa occupazionale, economica e reddituale per evitare di assistere all’ennesimo, tragico calo demografico a cui concorrono soprattutto i giovani.

E’ necessario maturare anche una visione di cosa vuol essere Taranto nel suo immediato futuro. In tal senso, qualcosa si sta muovendo. Sono tante le idee in cantiere:
• Il recupero dell’isola e del centro storico,
• La valorizzazione del lungomare Vittorio Emanuele, contrassegnato da una bella quinta di edifici di epoca
littoria,
• La riconsiderazione ai fini turistici dell’enorme valore naturalistico delle sponde del Mar Piccolo, compresa
l’antica area palustre La Vela;
• Il recupero delle numerose sorgenti costiere presenti intorno ai due mari: quelle del Tara e del Galeso e del Cervaro presso il Convento dei Battendieri, ancora oggi contraddistinte da un’inaspettata limpidezza delle acque e da una rigogliosa vegetazione;
• Il recupero dell’antico paesaggio di bosco di pini d’Aleppo presenti lungo le sponde del Mar Piccolo.

A questi può e deve aggiungersi anche il valore della storia produttiva contemporanea, pur con tutte le sue contraddizioni. Un concentrato di archeologia industriale, testimonianza preziose di una fase produttiva significativa nella storia della città.

Anche le più gravi crisi produttive e ambientali possono trasformarsi in opportunità di rigenerazione economica e sociale se si è in possesso di una chiara visione organica della città e del territorio che la circonda.

Da dove ripartire

Taranto deve ripartire dalle criticità e dalle risorse di cui dispone per ridisegnare il proprio futuro.

Soprattutto la nostra città deve ripartire dai suoi imprenditori, per decenni legati a doppio filo al Siderurgico e allo Stato con anni di appalti e sub-appalti.

Ma, per fare l’imprenditore non basta dotarsi di capannoni, impianti e macchinari come si è sempre fatto sino ad ora.

Negli ultimi 50 anni ci si è illusi che bastasse aprire una saracinesca e mettere in vetrina due prodotti per considerare se stesso un commerciante o un imprenditore.

Il risultato è stato un susseguirsi di negozi fotocopia, di aperture e chiusure, anzi soprattutto di chiusure, causate pure dalle recenti crisi economiche ma anche e soprattutto dalla mancanza di una generale cultura imprenditoriale che:
• non ha mai adottato un approccio scientifico nel proprio sistema di lavoro,
• ha scambiato la pubblicità per la panacea di tutti i mali,
• ha puntato il dito contro le miserie umane dei propri concittadini quando questi non compravano più come una volta,
• ha ritenuto che, per fare l’imprenditore, bastasse aprire una partita Iva.

E ora che si fa?

C’è bisogno di di ripartire da una sana cultura imprenditoriale.

Il primo passo lo faccio io: ti regalo un libro che ti può essere d’aiuto solo se smetti di fare il presuntuoso e decidi di metterti in discussione.

Il libro si chiama “Fare Impresa a Taranto è difficile, se sbagli metodo”.

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