Lontani dalle grandi arterie stradali, gli ulivi di Taranto custodiscono l’immensa forza e magnificenza della natura in un quadro di struggente bellezza
L’ulivo non è una pianta, è una civiltà: la nostra (“dove all’ulivo si abbraccia la vite”: De Andrè, Il sogno di Maria)
Tra il Seicento ed il Settecento, la maggior parte del territorio pedemurgiano subì una profonda trasformazione divevendo terra di vastissimi oliveti, noti come marine; alcuni di tali impianti sono tuttora produttivi, come quelli di Masserai Piccoli e Monti del Duca (Crispiano). Il ‘700, in particolare, si consacrò come il periodo di maggiore costante crescita del mercato oleicolo: l’ulivo divenne coltura principe e l’olio merce nobile, tanto da far assurgere Taranto a regina di stabili relazioni commerciali con Francia, Inghilterra ed Olanda.
In terra di Taranto, la coltivazione dell’ulivo era favorita dalla presenza di terreni leggeri, sassosi, insistenti su calcarenite che, a loro volta, permettevano rendimenti elevati anche dalle terre più ingrate. I territori più ricchi erano il feudo di Statte e le masserie di Accetta e Felice, da dove partivano intere carovane dirette verso le terre piane del litorale (consigliamo di approfondire qui)
Molti di questi ulivi presidiano il territorio di Taranto e provincia da millenni. Sono gli esemplari più antichi al mondo, vere e proprie sculture con l’aspetto di creature, serpenti e animali mostruosi. In agro di Torricella, Maruggio e Manduria ne abbiamo trovati moltissimi. Altrettanti ve ne sono ai lati della strada interna che conduce da Crispiano a Massafra.
Nella zona di Manduria vi è addirittura una masseria che custodisce con cura e dedizione uno degli esemplari di ulivo più grandi che possiamo ammirare in Puglia. Un monumento naturale dalle forme eleganti e una folta chioma ancora produttiva: è conosciuto in zona come Il Barone ed è custodito dalla famiglia Basile della Masseria Fellicchie.
«L’ulivo non è un albero, è un arbusto; se lo lasci fare, diviene un cespuglio. Grande, ma cespuglio. Rappresenta il Sud, perché la sua età millenaria è la somma di molti alberi che paiono uno, così come tanti popoli sembrano uno. Piantate un ulivo e quello cresce; sino a che il tronco non ce la fa più ad aumentare il diametro restando pieno e, a mano a mano che si allarga, si svuota al centro, per il marciume del legno più vecchio. Più il clima è umido, meno dura il legno; in Africa si va oltre i 500 anni, in Puglia 350-400, in Umbria non si superano i 200. Dopo una lunga fase in cui il legno dell’ulivo cresce all’esterno e si svuota all’interno, la pianta produce meno legno nuovo di quanto se ne distrugga; in capo a 1.000, forse 1.200 anni, non di più, il tronco originario collassa. Ma una delle nervature della pianta, contorte e avvolgenti come liane, o un pollone emesso dalle stesse radici, può ricominciare il ciclo. La pianta può essere molto più antica del suo legno; ecco perché se va a datarne il legno con il carbonio 14, non ricava la vera età. L’ulivo che ha 2.500 anni è un parente di quello che sorse due-tre tronchi fa, tutti estinti». (prof. Gianni Pofi, agronomo, ex dirigente della Forestale: www.touringmagazine.it/articolo/1526/puglia-il-tempo-degli-ulivi)
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